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La pupa ci vola in bocca

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Testo e foto di Francesco Stoppa*.

Qual è il modo migliore per realizzare un desiderio? Mangiarselo, poiché siamo ciò che mangiamo! E qual è il desiderio più… desiderato? La salute, l’abbondanza! La salute passa dal capire che cosa stiamo mangiando e perché, ma non è solo questo…… perché esistono cibi magici, che hanno un’anima, che è parte di quella immensa della Natura e che bisogna rispettare. Per le massaie abruzzesi è chiaro che cos’è la pupa, cioè un biscotto dolce a forma femminile formosa, tipico del periodo pasquale. Da un punto di vista storico non ne sappiamo molto, anche se la forma femminile con grandi seni e fianchi è una rappresentazione della Dea Madre, ovunque e in tutte le epoche. Ma scommettiamo che ci sono un sacco di altre cose da scoprire riguardo a queste pupe?
Intanto sono importanti perché rappresentano il patto tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo, l’unione tra terra e cielo, tra umanità e uno spirito superiore. Quest’ultimo, trovando casa nella pupa, diventa un elemento concreto e familiare, una sorta di protettore, un guardiano, per chi lo possiede: si crea così, tra il proprietario e la pupa, un legame indissolubile (ma meglio sarebbe dire viscerale) di arricchimento reciproco. Quindi, le pupe non sono solo un gioco che è da sempre parte integrante del genere umano, ma sono veri e propri oggetti rituali, che compaiono ripetutamente e sacralmente nel ciclo tradizionale, secondo una logica e un ritmo che forse ancora ci sfugge.
Si parte da Dicembre, per la festa di Santa Lucia, quando sono fatte di fichi secchi, poi si arriva a metà Quaresima, in biscotto con sette gambe, sette lingue e sette piume sulla testa, e infine a Pasqua, quando recano, a seno nudo, il classico uovo sulla pancia. Queste pupe mangerecce sono le più potenti, poiché sono talismani in grado di entrare ed essere assimilati dal nostro corpo. Naturalmente hanno un complemento indispensabile sebbene subordinato, cioè il simbolo maschile, che assume la forma di cavallo. Ma non dobbiamo commettere l’errore madornale di pensare che siano semplici dolci e di trattarli come tali: vanno sempre preparate e consumate insieme al compimento di altri rituali, che pure prevedono la presenza di pupe, fatte di cartapesta e stracci, che sono ugualmente importanti perché rappresentano l’elemento “volatile” o “volante” di queste complesse credenze popolari. Se appesantirete le vostre pupe con elementi irrituali, esse saranno troppo pesanti per volare e portare in alto i vostri desideri: mangiate, saranno solo un mucchietto di calorie.
pupedefucureIntanto vediamo cosa simboleggiano queste pupe e perché non dobbiamo modificare questi simboli. Prendiamo quelle di Santa Lucia: ora noi diciamo che qualcosa “non vale un fico secco”, ma in realtà i fichi secchi erano una risorsa enorme per i nostri nonni, che li usavano per dolcificare e come riserva energetica immediata in campagna e durante i viaggi. Questi fichi, di solito nella varietà brigiottə, seccati al sole e chiamati caracinə (Ficus carica L. = fico della Caria), divennero una risorsa economica e Chieti città ne produceva tra i migliori in Italia fino agli anni ‘50 del Novecento, maritati con noci, mandorle e cioccolato. Ora rappresentano un’altra specialità locale buttata a mare negli anni Sessanta del 1900. Le pupe di fichi secchi hanno una struttura in stecca di canna, hanno un abito elegante e molto colorato in carta e capelli in lana, cotone o trucioli; i fichi possono essere spolverati con zucchero a velo, con amido, con cacao o spruzzati di cannella. Conservare le pupe di fichi nel giorno più corto dell’anno, dedicato alla festa della luce, e mangiarle durante i freddi mesi successivi significava preservarsi dalle malattie della gola e dei polmoni e, visto che ci siamo, anche dai mali degli occhi. Un’usanza che forse oggi si conserva solo a Guardiagrele.
Passato il periodo più buio e freddo, è ora di pensare alla primavera, dato che siamo in epoca di equinozio, e poi alla bella stagione e al raccolto (ma bisogna meritarseli!). Compare allora una pupa stupefacente, che somiglia all’antica gorgone capace di pietrificare con il suo sguardo. È un ammonimento! Le sette gambe della pupa quaresimale rappresentano il percorso di purificazione che dura sette settimane, la quarantena, la penitenza; le sette piume o un canestro con sette pesci, rappresentano l’astinenza da tutte le cose che era consigliato non fare in Quaresima. Le sette lingue indicano la necessità di astenersi dalla maldicenza e altri peccati orali o di pensiero.
Ma perché tutto questo lutto? In realtà questa pupa è la vedova di Re Carnevale e deve rispettare la quarantena del lutto totale (non avere rapporti sessuali, non mangiare carne, non lavarsi, pettinarsi e cambiarsi, non cucire, non spazzare né rifare il letto). Questa pupa di Quaresima in realtà non dovrebbe essere tanto ricca d’ingredienti ricercati e quindi peccaminosi: sicuramente niente cioccolato e forse neanche mandorle, magari solo un poco di mosto cotto, impastato con farina e un’idea di cannella, fate voi. D’altra parte, basterà aspettare ancora qualche settimana e, una volta purificata dall’astinenza, la pupa tornerà fertile e feconda: piena di gioia di vivere, mostrerà il seno nudo e turgido e sarà gravida di un bell’uovo sulla pancia, anzi tante uova quanti sono i figli della famiglia, così che anch’essi ne avranno almeno un pari numero. Ne deriva che spostare l’uovo su altre parti del corpo della pupa, come si vede fare oggi, mettergli il reggipetto e calarla a una quarantadue di taglia, sono segno di malaugurio. Oramai se ne vedono di tutti i colori, sull’onda emotiva del cake design: la fantasia non guasta, per esempio aggiungendo simboli floreali, ma solo se prima si rispettano le regole.
Anche se le altre pupe di cui vorrei parlarvi ora sono di cartapesta o di stracci, e non di biscotto, non importa: per ricevere auspici, se non si possono mangiare si faranno bruciare o volare. Sono le pupe “volatili”, fatte di una materia e contenenti un ingrediente magico tali da potersi disperdere nell’aria che respiriamo, nell’acqua che beviamo e nella terra su cui camminiamo. La famosa pupa che balla tra i fuochi d’artificio, un tempo fantasmagorica divinità danzante con i seni nudi fatta di cartapesta, è la regina di tutte queste bambole e dispiace che gli abruzzesi l’abbiano mandata al macero e squallidamente sostituita con manichini industriali su carriola. Quest’ultima umiliazione certamente avrebbe fatto pensare agli antichi a presagi poco felici…
Sono quasi scomparsi, invece, il fantoccio del re Carnevale e del Majo, entrambi spiriti della Natura che andavano bruciati per rendere fertile la Terra. Questi due fantocci maschili hanno uno scopo rituale reciproco alle pupe: la fertilità è rappresentata da un simbolo fallico (un salame o una pannocchia di granturco), peperoncini e scoppi rumorosi di petardi celati dentro di essi scacciano il male; un bigliettino cucito nella tasca rappresenta un desiderio da mandare in cielo mentre il fantoccio brucia.
Per finire, vi parlo di una festa bellissima e poetica in cui grande importanza si dà alle pupe, agli spiriti e alla salute: è l’antico rituale delle “bambole volanti”, la IV domenica di Quaresima. Nelle contrade di Chieti veniva detta delle foije verde: credenza vuole che bambole di varie dimensioni possano attrarre e trattenere gli spiriti e le malattie, e nello stesso tempo seminare una magia buona ove passano, perciò nella giornata della Festa c’è l’usanza di farle volare appese a fili sulla testa dei partecipanti e sui luoghi che si desidera proteggere e rendere fertili. Per esempio, si appendono sopra l’uscio o la finestra di casa, o le si fa scorrere su carrucole tra una casa e l’altra. Le “bambole volanti” sono dette Quarjisime, Quaremme o Quarantane in molti paesi del Sud dell’Italia, tra cui il vicino Molise e la lontana Calabria. Queste pupe portano doni, ma sono vestite di nero o di bianco – i colori del lutto – e in mano hanno un fuso con della lana e una rocca. Sotto il vestito delle bambole, tornano le “sette cose” che rappresentano i cibi e i simboli della Quaresima da consumarsi in attesa della rinascita, della resurrezione e del risveglio della natura.vecchie
Sette cose! Per esempio un’arancia in rappresentanza dell’utero femminile, un bastardone per il fallo maschile, il baccalà (astensione dalla carne), l’aglio per scacciare il male, i fichi secchi come auspicio e protezione dai malanni invernali; le fave secche come penitenza, ammonimento alla caducità; le noci per la germinazione, la forza vitale protetta dal guscio…. Si tratta di simbologia, non è necessario che siano proprio questi oggetti: per esempio una sardella può stare al posto del baccala, il grano al posto delle noci, una patata invece dell’arancia; ci può essere una cipolla, che con le sue molte sfoglie indica un percorso di purificazione, o l’olio che indica la benedizione.
I simboli della tradizione sono come le nuvole: sempre uguali e sempre diversi.
In questa festa, le pupe mangerecce (la quarantana), oltre alle pupe di stracci sono accompagnate da tre maschi vestiti da vecchia, rappresentanti le Parche, che fanno e disfanno il destino umano, forse le uniche tre pupe viventi ancora conservate nella tradizione abruzzese. Solo un maschio – e possibilmente un maschio iniziato al rito – può ripetere anno dopo anno il ruolo e passarlo infine ad un altro. Una curiosità: i giovani usavano portarsi in tasca un rametto con qualche foglia sempreverde e donarlo se incontravano un possibile compagno o compagna pronunciando una di queste frasi, alludendo alla gemmazione delle piante che comincia più o meno in questo periodo di equinozio soglia tra il caos invernale e il desiderio di luce e stabilità della bella stagione: Chi mi li da na fuijetellə? Chi mi li da na stuppetellə pe fa filà Quarajesèma puverellə? Quarajesèmə puvərellə, va girennə pe’ la terrə, va cerchennə na fuijətellə, va dicennə pòlla, pòlla chi mi li da ‘na fave ‘mmollə? Quarajesèmə nghè li baffə nin mə truvə e nin m’aggraffə, ma dapò ca ci si minutə, te li dinghə lu salute, nghè na ‘nserta de cipolle tutte quande sta satolle. Quarajesèmə puvərelle je te li dinghe na fojia verdə, jesce fore da lu paijarə tutte quande lu surgiare.

Alcuni consigli sul menu di magro, da preparare nella IV domenica di Quaresima: clicca qui.

*Francesco Stoppa è uno studioso di tradizioni popolari e direttore del centro di Antropologia Territoriale per il Turismo, Ud’A. Collabora con vari associazioni e compagnie che si occupano di mantenere vive le feste del ciclo calendariale a Chieti.

(Versione integrale dell’articolo pubblicato su C come magazine numero 33, gennaio-marzo 2015)

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